L'infanzia che ci portiamo dentro: come influenza il nostro modo di amare - - Look Out News

L’infanzia che ci portiamo dentro: come influenza il nostro modo di amare

Ci sono storie che non finiscono con il tempo, ma che continuano a vivere dentro di noi, silenziose, a volte invisibili, altre volte più forti di quanto vorremmo ammettere. Sono storie che non leggiamo sui libri né ascoltiamo nei film, ma che scriviamo giorno dopo giorno senza rendercene conto, attraverso il modo in cui scegliamo, accogliamo, trattiamo e — soprattutto — amiamo.

Perché sì, l'infanzia che abbiamo vissuto resta con noi anche da adulti, e spesso prende posto proprio nel cuore delle nostre relazioni.

Quando parliamo d'amore, ci immaginiamo adulti capaci di scegliere in autonomia. Eppure, se ci fermiamo un attimo, se osserviamo come reagiamo, come chiediamo, come ci leghiamo o ci allontaniamo, scopriamo che molto di ciò che facciamo non è una scelta consapevole, ma un copione antico, un riflesso di ciò che abbiamo imparato, o non imparato, da bambini.

I primi legami non si dimenticano

L'infanzia è il tempo in cui impariamo il mondo. Non a parole, ma attraverso gli sguardi, i gesti, le presenze o le assenze delle figure che ci stanno accanto. È lì che impariamo cosa significa sentirsi accolti, protetti, visti. O, al contrario, trascurati, ignorati, rifiutati. Quei primi legami — con i genitori, con chi si è preso cura di noi — sono la lente con cui da adulti guarderemo ogni relazione.

Se da piccoli siamo stati rassicurati nei momenti difficili, se ci è stato permesso di esprimere emozioni senza essere giudicati, se ci siamo sentiti amati anche nei giorni “sbagliati”, probabilmente oggi riusciamo ad amare con maggiore apertura e fiducia. Ma se invece siamo cresciuti in ambienti instabili, rigidi, emotivamente distanti, è facile che dentro di noi si sia formata una zona d’allerta che si attiva ogni volta che qualcuno si avvicina troppo.

E anche se non ci ricordiamo tutto, il corpo e il cuore ricordano più di quanto pensiamo.

Amare con la paura di essere abbandonati

Uno degli effetti più comuni di un’infanzia segnata da legami poco sicuri è la paura costante di essere lasciati, anche quando non ci sono segnali evidenti. Chi ha vissuto abbandoni reali o emotivi da bambino può sviluppare, da adulto, un attaccamento ansioso, un bisogno incessante di conferme, una difficoltà a fidarsi pienamente.

In questi casi, l'amore non viene vissuto come spazio di libertà, ma come zona di rischio. Ogni silenzio viene interpretato come distanza, ogni ritardo come rifiuto, ogni errore come minaccia. E così, pur desiderando connessione, si finisce per mettere in atto comportamenti di controllo, di insistenza, di richiesta eccessiva, che a lungo andare logorano il legame.

Non si fa apposta. Si cerca solo di evitare il dolore che si conosce fin troppo bene.

Quando si teme l'intimità

C’è poi l’altro lato della medaglia: chi, avendo sperimentato ambienti affettivi caotici o invasivi, sviluppa una forma di chiusura protettiva. In questo caso, ogni relazione profonda viene vissuta come potenzialmente pericolosa, e l’intimità, invece di essere desiderata, viene evitata. Le emozioni vengono tenute a distanza, i legami vissuti con distacco, e ogni tentativo dell’altro di avvicinarsi viene letto come una minaccia all’autonomia.

Anche qui, non si tratta di non saper amare, ma di aver imparato a farlo tenendo sempre un passo indietro. Per proteggersi, per non cadere, per non rivivere ferite antiche.

Le aspettative che ci portiamo dentro

Cresciamo con modelli affettivi che diventano silenziosamente il nostro riferimento. Se l’amore, per noi, è stato qualcosa da conquistare, da meritare, da inseguire, finiremo col cercare persone che ci fanno sentire esattamente così: in lotta, in attesa, in apnea.

Se, al contrario, l'amore è stato troppo condizionato dal giudizio o legato alla performance, potremmo scegliere partner che ci chiedono sempre di dimostrare, di essere all’altezza, di non sbagliare.

Tutto questo accade in profondità, senza che ce ne rendiamo conto. Ma ogni volta che ci fermiamo a riflettere, ogni volta che ci chiediamo perché ci incastriamo sempre negli stessi meccanismi, possiamo iniziare a riconoscere quei copioni e decidere se vogliamo continuare a recitarli.

Guarire, senza cancellare

Non si può riscrivere l’infanzia. Non si possono cambiare i genitori che abbiamo avuto, né colmare tutto ciò che è mancato. Ma si può imparare a guardare quella storia con occhi nuovi, a capirla senza più subirla, a riconoscere il bambino che siamo stati, non con rabbia o vergogna, ma con compassione.

E in quel riconoscimento, in quel gesto di ascolto verso sé stessi, comincia una forma di guarigione lenta, ma profonda. Una guarigione che non pretende di cancellare il passato, ma che ci permette di non farlo ricadere nel presente. Una guarigione che dice:
“Posso amare in un modo diverso. Posso dare quello che non ho ricevuto. Posso chiedere senza vergogna. Posso restare, senza paura.”

Essere consapevoli per amare meglio

Essere consapevoli non significa avere tutte le risposte, né diventare perfetti. Significa imparare ad osservarsi con onestà, a riconoscere i propri automatismi, a distinguere la reazione dalla scelta. Significa fermarsi quando si ha voglia di scappare, prendersi tempo prima di esplodere, comunicare senza accusare.

Nel tempo, questa consapevolezza diventa una forma d’amore in sé. Perché amare meglio non è solo questione di sentimento, ma di presenza. Di cura. Di responsabilità. Di saper vedere l’altro non come salvezza, ma come compagno di cammino. Qualcuno che ci specchia, sì, ma che non ha il compito di guarirci.

Riscrivere il modo in cui amiamo

L’infanzia ci insegna molto. A volte ci lascia cose bellissime, altre volte schemi che ci fanno male. Ma essere adulti significa anche poter scegliere. Possiamo scegliere di cambiare il finale. Possiamo decidere che oggi, a differenza di ieri, non lasceremo che siano le ferite a guidare le nostre relazioni.

Possiamo sbagliare ancora, ma in modo diverso. Con più coscienza. Con più gentilezza. Con la voglia non di essere perfetti, ma di essere veri.

E forse, proprio in questo riscrivere, in questo prenderci per mano anche nei punti fragili, cominciamo a sperimentare un amore nuovo, più libero, più profondo, più nostro.

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